Prefazione di Giancarlo Ricci

Prefazione

di Giancarlo Ricci

“La voce, come il corpo, non mente”, nota l’autrice nelle prime pagine che avviano questo libro avventuroso. La voce e il corpo: due polarità che diventano i personaggi principali che tessono il leitmotiv di questa esplorazione. Non si tratta di due personaggi qualsiasi perché entrambi hanno una caratteristica rara: uno non può mentire all’altro. Come l’oggetto e la sua ombra.

Da questa veloce constatazione, semplice ed evidente, discendono in realtà parecchie implicazioni. Crediamo di sapere cosa sia la voce. In effetti lo sappiamo. Ma sentire una voce è altra cosa. Qualcosa sfugge e non si lascia cogliere.  Rimane un residuo non simbolizzabile dove il senso si sfalda. Perché la voce, pur veicolo di senso, di emozione o di piacere, costantemente si sottrae, si nasconde, si mimetizza.

La direzione dichiarata dall’autrice, quella di interrogare la vocalità a partire dalla psicanalisi, è di situare la voce come un altrove, come un’alterità che abita la parola stessa e che la fa vibrare di risonanze sconosciute. Non solo: la voce ha uno statuto più antico e più originario rispetto alla parola. La voce della madre, per esempio, ci accompagna ancor prima di venire al mondo. Solo dopo, con lo strutturarsi della soggettività, la vocalità pare recare con sé, come un dono nascosto o contrabbandato, una sorta di memoria. Che appare e si sottrae al stesso tempo.

Non a caso il titolo del libro evoca la nudità della voce. A nuda voce: ossia con l’essenziale materialità  della voce, con la sua forza evocativa o invocativa, con la sua sfuggevole lievità. O con la sua fragilità indifesa e indifendibile. Forse la nudità della voce ci interroga incessantemente perché è come una ferita sempre aperta, quasi l’interminabile modulazione del grido o dell’urlo.

Questo libro ci sorprende perché esplora numerose coniugazioni del tema della voce con ambiti poco consueti e poco frequentati. Risulta  un testo indispensabile e imprescindibile rispetto a ulteriori ricerche sul tema della voce. L’indice è una vera e propria mappa che preziosamente permette di orientarsi in un territorio più vasto di quanto immaginavamo.Per esempiotroviamo alcuni elementi informativi che rileggono in modo originale l’anatomia dell’apparato fonatorio e la fisiologia della voce e del canto.

La voce non è un oggetto come gli altri. Proviene dal nostro corpo. Rinvia al momento in cui esso nasce, al suo primo respiro e alla prima sorpresa di ciò che è attorno. “La voce, ci ricorda l’autrice, è anche e soprattutto memoria”. Tuttavia è una memoria opaca, dove la sua tessitura a tratti si imbatte nel silenzio, nell’oblio, nell’assenza di timbri o di colori. La vocalità è fatta di materia sottile, sibilante o roboante, che si fa suono, che assume l’abito della parola, del canto, della melodia. Che spalanca, nel rumore di fondo della quotidianità, lo squarcio della scena acustica. Che dice o balbetta le sue ragioni. Che risuona per sintonia, o tace quando si impiglia. Che parla dell’indicibile del godimento o di un’incessante “esitazione tra suono e senso”.

Dunque quando ascoltiamo una voce che cosa ascoltiamo in realtà?   “Fin dall’inizio, avverte l’autrice, la voce nasce bifronte.” E possiamo aggiungere che è destinata a vivere un’insanabile dissimmetria: da un lato la parola non può che esistere attraverso la voce, ossia appoggiarsi a una sonorità più o meno musicale, dall’altro il canto può fare benissimo a meno del significato, può vivere di vita propria, di sola melodia, di solo ritmo o di pura vocalità. E’ impensabile allora cercare di distinguere la parola dalla voce, tanto siamo abituati a udirle nella simultaneità. E ugualmente, quando ascoltiamo musica o sentiamo cantare, le parole sembrano soltanto accompagnare la musicalità e marcarne il ritmo. Eccoli ancora i nostri due personaggi, la voce e il corpo, con la loro commedia.

Notevoli in questo lavoro risultano le escursioni nella letteratura (Hoffmann, Pirandello, Kafka, Eliot), nella musica (Chopin), nella pittura (Kandinskij, Munch), nel canto (Billie Holiday). Ma altri autori e altri accenti poetici continuano a risuonare, per un curioso gioco di echi, anche quando abbiamo terminato la lettura. Vi sono alcuni punti del libro in cui la vocalità assume la portata di evento, di qualcosa che non cessa di accadere, qui, sotto le nostre orecchie e che tuttavia risuona al di là del nostro ascolto. Possiamo essere preparati, esercitati, tecnicamente formati e informati, ma tale evento non si lascia definire in un senso. Mostra piuttosto la sua natura magica.

Su questo tema della voce come evento, Laura Pigozzi  dedica notevoli pagine, e sono quelle in cui lei stessa si abbandona al rapimento. Penso, per esempio nel capitolo finale “La voce, l’amore”, all’articolazione di  quello che definisce timbro blu. Riprendendo la vicenda della “nota blu” di Chopin, il timbro blu è il “segno di quella vertigine in cui l’impossibile e l’impensabile può accadere nel destino di un soggetto”. Quasi cercando di ritrovare in tale vertigine un baricentro, l’autrice annota ancora: “Nel timbro blu c’è qualcosa di conosciuto e di misterioso, di familiare e di perturbante, qualcosa di intimo che di continuo sfugge, qualcosa che, come il blu, ci appartiene e ci riguarda. Parla a noi, di noi”. Si spalanca qui tutta la paradossalità della relazione tra la voce e l’Altro: l’Altro è il nostro corpo, attraversato dalla nostra storia, da cui la voce proviene, ma l’altro è anche colui al quale la voce si rivolge.

Non lontane da questa tematica sono le pagine dedicate a un’originale rilettura dell’episodio del canto delle Sirene e di Ulisse. Sono pagine che sorprendono. Non immaginavamo la ricchezza delle sfumature e delle implicazioni delle tre differenti parole greche utilizzate da Omero per designare la voce. Irresistibile la questione della voce, lo avvertiamo ripercorrendo le pieghe del “Silenzio delle sirene” di Kafka o nel racconto “Il consigliere Krespel” di Hoffmann. Visitazioni che segnalano quanto la forza evocativa della voce rimandi irrevocabilmente, nel mito letterario, a una faccenda di vita e di morte.

Ulteriori risvolti di notevole interesse affiorano nelle considerazioni rapsodiche con cui l’autrice ci parla della voce-shofar : il suono cupo del corno d’ariete con cui nel rito ebraico veniva richiamata la legge del patto con Dio. Non più il sibilo dei canneti, i flautati suoni del vento negli antri con cui gli antichi profetizzavano, ma il suono grave, invadente, ineludibile dello shofar  per simbolizzare la presenza della divinità. In un certo senso gioco di contrappunto, perché il timbro animalesco di questo suono assordante permette agli umani la lievità della melodia, la forza dell’alleanza e, non ultima, la possibilità della preghiera, l’atto cioè di poter rivolgere la propria voce all’Altro. Ma è un sentiero, questo, che ci porta a interrogarci sulla balbuzie di Mosè e su altro ancora. “Tutti quanti noi, balbuzienti o no, parliamo male la lingua del padre”.

La voce tocca. Sfiora, fa vibrare, rapisce. Eppure regge e sostiene. Quasi vivesse il paradosso di una sorta di doppia cittadinanza, umana e divina: è qui, la udiamo, ma è già altrove, indistinguibile. E’ irraggiungibile ma continua a raggiungerci, inesorabilmente. Il tema della mistica  non poteva, giustappunto, essere trascurato in questo libro.

Il terreno su cui si muove l’autrice, dicevamo, è quello della psicanalisi. I riferimenti rinviano a Freud, Lacan, Dolto, Kristeva, Salomè e tanti altri. Più che di una psicanalisi della voce, che presupporrebbe istituire la voce come oggetto d’osservazione, l’impresa di questo libro consiste nell’utilizzare la questione della voce e le sue  innumerevoli implicazioni  come se fossero sentieri laterali, poco frequentati, con cui avvicinarsi al centro della soggettività. “La voce – ricorda Lacan – è il vettore dell’esperienza più prossimo all’inconscio”.

Il materiale del libro offre una strumentazione preziosa che consente di accedere a originari livelli di lettura della clinica psicanalitica. La constatazione sorprende per la sua semplicità: come possiamo pensare alla soggettività, ossia a ciò che fa nodo nella pratica clinica, senza l’uditivo, senza prestare ascolto alla voce, al suo timbro o alla sua grana? Per esempio quello della sofferenza, dell’angoscia, dello smarrimento labirintico o della gioia solare. “E’ la voce e non solo il linguaggio, ad aprire l’accesso all’inconscio”. E in effetti è la vibrazione della voce a raccontare l’impercettibile presenza della piega di una storia o di una memoria lontane. Nella voce qualcosa è sempre pronto a balzare alle orecchie, ma tutto dipende da cosa siamo in grado di ascoltare.

La voce viene esplorata non solo in quanto oggetto pulsionale - partendo dalla teoria di Lacan -  ma come un’istanza significativamente in gioco nella strutturazione primaria dell’edipo: per esempio nel legame fondante che la voce istituisce tra madre e bambino e nella funzione costitutiva della voce del padre. I corollari sono innumerevoli: dalla scena primaria che si connota ulteriormente tramite una valenza acustica al timbro della voce come marcatura del soggetto, dal tema della sessualità alla voce del desiderio, dal godimento femminile alla voce cantata. La sessualità, il femminile, il godimento sono forse i temi privilegiati di un’esplorazione che procede lungo la notazione secondo cui “la voce sembra porsi come corpo della parola e, per essere più precisi, come il sessuale della parola”. 

Ciascun soggetto umano, notava Freud, impara a parlare in base a quel che ha udito. Dunque l’istanza della voce abita l’inconscio ed è pertanto centrale alla costituzione dello psichismo. Partendo da questa angolatura si staglia forse una delle domande più radicali che questo libro pone: come nascere alla voce?

Nascere alla voce: è il lavoro dell’analisi in quanto lavoro psichico intorno alla “verità storica” del soggetto. Lavoro che procede nell’individuare il materiale psichico da cui il soggetto “prende la voce” ogni volta che parla, ma anche nel percorrere quelle vicende psichiche che non hanno mai avuto modo di parlare o di dirsi. Qualcosa della soggettività rimane non dicibile o detto a metà o detto sottovoce. C’è un passo di Freud nel saggio Psicoterapia (1905) che ci sorprende per un fugace riferimento alla musica. Di punto in bianco scrive: “Lo strumento psichico, in realtà, non è affatto facile da suonare”. Da dove prende questo bizzarro riferimento? Lo spiega subito dopo. “Mi vien fatto di pensare alle parole di un celebre nevrotico” che ben presto si rivela essere Amleto. Già, Amleto: colui che non osava dar voce alla verità che lo divorava.

“Lo strumento psichico non è affatto semplice da suonare”. L’inconscio, la memoria, il corpo, la sessualità non sono affatto facili da “suonare” ossia da coniugare in un’articolazione che esprima pienamente la soggettività, anche quella sua parte le cui radici affondano nell’inconscio. Nascere alla voce comporta allora ritrovare quella “sinfonia pulsionale” nel cui movimento si rispecchia una soddisfazione dove etica ed estetica si sovrappongono.

 

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